7 ottobre 2007, via Valussi

7 ottobre 2007, via Valussi

7 ottobre 2007, via Valussi

Visita nella “Casa di Via Valussi” in cui sono alloggiati bimbi e genitori accuditi dalla Fondazione Luchetta-Ota-D’Angelo-Hrovatin, bimbi provenienti da tsituazioni di guerra o di disagio in tutto il mondo e bisognosi di un soggiorno in Italia per cure mediche

Dai “Bambini di via Valussi”, la casa della Fondazione dove i bimbi bisognosi di cure vengono ospitati con i loro genitori

Sullo sfondo le pareti tappezzate dalle foto delle centinaia di bimbi ospitati nel tempo.

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Dopo le manifestazioni dei giorni precedenti, una nutrita delegazione dell’organizzazione del Premio e dei ragazzi che vi hanno partecipato ha voluto portare un segno del suo affetto alla Fondazione.

Ci  si è immersi nella magica atmosfera di via Valussi; qualcuno si è lasciato trascinare in un pianto commosso e più sotto i testi di Roberta Grubelli, di Gabriella Valera e di Nsikak Obot Ekanem danno il senso di tanta emozione.

Attore del mattino trascorso assieme è stato sicuramente Nsikak, che dopo aver giocato con i bambini, fregandosene delle chiacchiere di “noi grandi” e dedicando loro tutte le sue attenzioni, ha interpretato la sua poesia (non prima di avercene tradotto il significato) nella sua lingua originale, della cui musicalità eravamo già stati profondamente colpiti durante il reading alla Sala Tripcovich.

I bambini di via Valussi

I bambini di Via Valussi (di Gabriella Valera Gruber)

“I bambini di via Valussi” (di Gabriella Valera)

Ci sono venuti incontro a manine levate, offrendoci fogli colorati sui cui stava scritto: “Siamo contenti che siate venuti. Un grosso bacio dai bambini di via Valussi”.

E sono scappati via, in un a specie di girotondo confuso, prima che si riuscisse a leggere ciò che ci avevano dato.

Hanno una loro “leggerezza” i bambini di via Valussi: quando giocano, quando piangono, quando cercano di esprimere un bisogno, quando passano dalle braccia di un genitore a quelle di un altro o a quelle di un volontario, sembrano sfiorare quel luogo che è la loro casa: sembrano essere lì con grazia e con discrezione. Incredibile la sensazione che danno.

Così quel giorno, con i loro benvenuto fra le mani, mi sono sembrati rondinelle in volo.

Quei fogli erano naturalmente un dono dei genitori che si trovano a Via Valussi con i loro bambini, un dono fatto di parole mute, come del resto le pizzette e i dolci cucinati per noi.

Gianni Scarpa da un angolo osservava con il sorriso appena accennato di sempre. Mauro (il nostro fotografo) con gli occhi sbarrati come per fissare dentro di sé le immagini. Una volontaria teneva in braccio un bambino. Alcuni dei nostri giovani commossi hanno pianto, altri venuti da lontano giocavano, disegnavano, sembravano essere lì da sempre. Io, accanto ad Ottavio, troppo usa alla riflessione, prendevo tempo con i miei pensieri per capire meglio, oltre la commozione, oltre la sensazione di bontà e di solidarietà che si poteva respirare.

I “bambini di via Valussi”, in realtà, hanno ciascuno un nome, una casa lontana, un paese di origine, un idioma: tutto questo è stato loro tolto, almeno momentaneamente, da guerre,indigenza, situazioni diverse di difficoltà.

Tutto questo non è possibile restituirglielo, neppure a via Valussi.

Anche i più grandicelli parlano poco, forse non sanno quale lingua parlare. Sono, per quanto accompagnati dai loro genitori, lontani da una radice.

Eppure quel giorno (come forse in tutti i giorni della loro permanenza lì) non ci fu bisogno di parole. Si affidavano spontaneamente al caldo abbraccio di noi, che nulla sapevamo del loro male e nulla dei loro nomi e delle loro lingue e delle loro terre. Le parole erano sostituite dai sorrisi, dai baci, dall’ascolto dei loro occhi; o dallo sguardo di incontro con i genitori, che sorreggono reciprocamente la loro pena, in una casa provvisoria che rimarrà però forse nel loro cuore come la più importante e la più sicura delle case, quando torneranno nel loro paese.

I bambini di via Valussi e i loro genitori torneranno nel loro paese e nelle loro case: presto, speriamo, quando i motivi di cura che li hanno portati in Italia saranno rimossi. Non ci è dato sapere quanta memoria rimarrà, nei più piccini, di ciò che hanno vissuto. Non sappiamo se un giorno, tornati alle loro terre, potranno mai incontrare di nuovo quelli che sono stati come “fratelli” in questa vicenda di solidarietà e d’amore; non sappiamo se ricorderanno il miracolo di una casa, dove è superata la barriera del linguaggio; non sappiamo se ricorderanno il sorriso lieve di Gianni Scarpa, gli occhi di Mauro il fotografo, le braccia dei volontari.

Ma siamo noi a non poter dimenticare; siamo noi a voler dire smarriti: “Cari bambini di via Valussi. siamo contenti di essere venuti qui; grazie di essere stati con noi e d’averci fatto dono della vostra grazia come se quel pezzo doloroso di mondo da cui siete venuti fosse soltanto un incubo che il nostro sogno può per sempre cancellare”.

Una poesia

Dalla serratura del mondo (di Roberta Grubelli)

Vorrei piangere un po’

Ti chiedo di osservami mentre lo faccio

Libererò ogni lacrima

Non smorzerò la disperazione

-devo assaporarne il gusto amaro-

C’è una punta d’acidità

Graffia i sensi ed echeggia nell’anima

non vorrei poi asciugarmi il viso

cosa devo nascondere?

Non temo gli sguardi dei passanti

Ma solo la tua indifferenza

Sto bruciando lentamente

le lacrime soltanto

possono spengere questo fuoco devastante

voglio che esse incidano le mie guance

per non farmi dimenticare

quegli occhi che implorano aiuto

-mi vedrai scomparire-

voglio liquefarmi e mescolarmi

assieme a queste gocce salate

per poi tuffarmi in un mare di leggerezza

voglio tenerti la mano, ancora,

sospirare, farti sentire il mio alito caldo

che possa avvolgerti come un tenero abbraccio

il più sentito, il più vero che riceverai

in tutta la tua esistenza

la mia inettitudine è infinta in questo momento

la parola non saprà descrivere

il sapore di queste lacrime, così dense

così intrise dell’essenza vitale

una vita che dedico a te

Roberta Grubelli

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